La dedizione al lavoro e la voglia di mettersi in gioco ripagano sempre. In tutto. E Giovane Feddini, questo, lo sa molto bene.
Dopo anni di gavetta, live e battle di freestyle in giro per l’Italia, l’artista padovano ha saputo dimostrare di avere la stoffa e le capacità per giocarsela nel campionato che conta, quello dei grandi del rap. E non è un caso se Don Joe ha visto in lui grandi potenzialità, tanto da portarselo in Dogozilla Empire.
Il suo stile è davvero unico, molto spesso aggressivo, mentre altre volte introspettivo e delicato. Ma una cosa è certa: non ha niente a che vedere con la musica usa e getta a cui ci stiamo abituando sempre più.
Un giorno in meno, ultimo album del rapper, è stato pubblicato appena ieri, 5 febbraio. In occasione di questa uscita, grazie a Sony Music abbiamo avuto il piacere di intervistarlo. Giovane Feddini ci ha raccontato un po’ di aneddoti sul progetto, il suo modo di fare e di vedere il rap di oggi, in una bella chiacchierata che lascia degli spunti di riflessione davvero molto interessanti. Eccola.

Partiamo subito ripercorrendo gli inizi. Com’è nato Giovane Feddini?
Io mi approccio alla musica come Federico, ascoltando i primi pezzi di 50Cent e Eminem, tramite i CD masterizzati di mia sorella maggiore. Verso i 18 anni, poi, grazie al mio gruppo di amici, inizio ad avvicinarmi alla cultura hip hop italiana e approcciarmi alle prime battle di freestyle. Sono sempre stato appassionato di scrittura, quindi il freestyle per me è stato veramente una forma di espressione incredibile. Per questo mi ci sono cimentato, cercando di diventare uno dei nomi più gettonati dell’ambiente freestyle. Da lì, ho cercato di espandere il mio percorso d’artista, ho fatto i primi mixtape con la mia crew e i primi da solo. Poi finalmente, grazie a dei brani che avevano girato molto di più, sono riuscito ad arrivare all’orecchio di Don Joe, che nel 2018 mi ha fatto firmare per la Dogozilla Empire. A quel punto abbiamo iniziato con il primo Real Talk, con i primi singoli, i mixtape estivi per poi arrivare a questo momento e pubblicare l’album ufficiale insieme alla Sony.
Il tuo primo pseudonimo era Fed Spartaco… In cosa si differenzia Giovane Feddini rispetto a Fed Spartaco? E cosa invece di quest’ultimo c’è ancora nella tua musica oggi?
Fed Spartaco è la mia parte più rapper, quella del ragazzino che si faceva i chilometri in treno per andare a Venezia a fare le battle di freestyle a premi, cercando di lottarsi il posto in ogni modo. Fed Spartaco mi spinge alla ricerca delle citazioni, all’essere agguerrito e voler dimostrare la mia forza, senza però ostentare nulla. È la grinta della mia musica ed è ancora dentro di me. Infatti, in quest’album, prevale in brani come Jetsky o Bravi Ragazzi. A un certo punto però, Fed Spartaco è diventato un nome troppo aggressivo e, nonostante l’aggressività e la forza servano, non era comunque il messaggio che avrei voluto mandare sul lungo percorso. Sentivo che non mi rappresentava appieno e sapevo di dover crescere, soprattutto perché volevo lasciare un’eredità vera e parlare a più persone a più fasi della vita. Ecco perché Giovane Feddini.
Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo della musica? Magari sia italiani che esteri
Quelli che hanno inciso propriamente sul mio stile di scrittura sono perlopiù americani, perché comunque ho cercato di attingere dalla fonte originaria, quella dove effettivamente è nato il campo nel quale volevo muovermi. Io direi che Rick Ross mi ha insegnato a scrivere, cioè mi ha proprio donato la poesia. J. Cole mi ha insegnato a scrivere le storie, mentre Drake mi ha insegnato a essere il più onesto possibile. Anche perché, se hai qualcosa di imbarazzante da raccontare, che però può avere un buon messaggio, devi lasciarti alle spalle il machismo e raccontarla, perché sarai ancora più uomo a mostrare il tuo errore senza paura. Invece di italiani, sicuramente Guè, per la sua poetica, specialmente nei primi tempi. Infatti, Don Joe sa benissimo quanto io sia fan boy dei Dogo. Poi direi che Jake The Smoker e Ghemon sono gli artisti che più mi hanno accompagnato: Jake dal punto di vista delle barre, delle metriche; e Ghemon per quanto riguarda il come esprimere la mia poesia.
Dogozilla Empire è da sempre sinonimo di qualità, voglia di fare e di trasmettere qualcosa di concreto. Che impatto ha avuto sulla tua carriera l’etichetta di Don Joe?
Sicuramente mi ha permesso di crescere tanto. Quando io sono entrato in Dogozilla, molto spesso mi dovevo subire i messaggi delle persone che già dopo tre giorni dicevano: “Ma Don Joe non ti ha ancora dato un beat? Ma non hai ancora il featuring di quell’artista?”. In realtà, quando parlavo con i ragazzi dell’etichetta, mi è sempre stata promessa la crescita: “Feddini, a noi piace quello che fai, pensiamo che tu abbia un bel messaggio e anche un bel modo per esprimerlo. Noi cercheremo di portarti il più lontano possibile”. E così è stato fatto: nel giro di due anni sono cresciuto sotto tutti i punti di vista. E anche in questo disco, specialmente nei momenti più professionali, loro ci sono stati. Mi hanno aiutato, ad esempio, nel capire come nella promozione non servisse strafare, ma bastava semplicemente portare la mia vera essenza. Joe mi ha dato ottimi consigli anche nella scelta di alcuni brani, riuscendo a farmi evitare alcuni errori ingenui che in prima persona non avrei mai notato, essendo immerso nel mio lavoro.

E l’ingresso in Sony? Come l’hai vissuto?
Con la Sony è tutto molto più professionale. Riesco a far arrivare la mia musica a molti più portali rispetto a quando facevo tutto da solo. Sono veramente felice di come stanno andando le cose, dei miei numeri, specialmente perché io mi ricordo sempre da dove sono partito. Una bella rivincita per tutti quelli che mi ripetevano, fin dagli inizi, che chi viene da una provincia non sarebbe mai riuscito a combinare niente in un genere come il nostro. Invece, questa uscita Sony, al di là dei numeri e delle certificazioni, è la ciliegina sulla mia carriera. Nessuno potrà mai portarmi via il fatto che comunque il mio valore è stato riconosciuto, anche grazie a questo progetto.
Parliamo allora un po’ del nuovo album, partendo dal titolo. Come mai hai scelto “Un giorno in meno”?
Per due motivi. Innanzitutto, perché è un titolo molto forte: da un senso di fretta e comunica esattamente il tipo di messaggio che avrei voluto mandare. Questo disco, infatti, si ispira al film In Time, con Justin Timberlake, nel quale i protagonisti, così come la società distopica di quel film, usano il tempo come valuta di scambio, come il denaro. Quindi, cercando di partire da quel concetto, il messaggio che cerco di mandare con il disco è di non sprecare neanche un giorno della propria vita, se non per migliorare sé stessi, la propria situazione, le persone attorno e quindi essere felici. Inoltre, è anche il titolo del progetto mai uscito del mio migliore amico con cui ho iniziato a fare musica. È stato, dunque, anche un modo per onorarlo e onorare quello che abbiamo fatto insieme partendo da Padova. Un talismano da portare con me nel nuovo viaggio milanese e nel campionato dei grandi del rap.
In Dispettoso dici: “Al business ci pensa la mia label, io faccio sì che quello che senti tu poi sia vero”. In questo senso, rispetto all’autenticità dei testi, cosa ne pensi del rap di oggi? Perché tu ti senti di fare il dispettoso?
Penso che a livello qualitativo, quindi della musica, il rap italiano abbia fatto cento passi avanti. Se gli americani, i francesi, i tedeschi e gli inglesi ci chiedono le collaborazioni per i loro remix, significa che comunque musicalmente stiamo andando nella direzione giusta. Quello che bisogna aggiustare è la cultura. Io dico che, a differenza del rap americano, dobbiamo trovare più un nostro scopo. Ma non solo nelle canzoni, anche nei gesti concreti. Prendiamo Jay-Z: lui davvero entra in gioco e permette a giovani americani o latinos di non finire in prigione ingiustamente, perché lui è Jay-Z e ha un potere e una voce per poterlo fare. In Italia manca questa cosa. Fai i soldi, sei migliore…ok, poi? Questo discorso, secondo me, è anche uno dei motivi per cui un personaggio come Fedez è riuscito a farsi rivalutare molto quest’anno. Gli anni scorsi, se ci pensi, gli si gettava continuamente fango, specialmente nell’ambiente rap, perché sembrava non essere il vero, o essere autentico. In realtà, l’anno scorso, con le sue azioni, ha dimostrato di fare molto più lui che tante persone che predicano il vero nel rap. Quindi vorrei semplicemente che il rap italiano migliorasse il suo aspetto culturale e si desse più uno scopo.
In questo senso, allora, quale potrebbe essere il tuo contributo alla scena? Quale sarebbe il tuo valore aggiunto rispetto ai tuoi colleghi?
Per prima cosa, con Un giorno in meno ho dimostrato che si può fare un disco forte e d’impatto, senza vantarsi di essersi fatto la tipa di nessuno, senza aver pubblicizzato una droga in particolare, e senza aver fatto sponsor gratuito a brand di lusso che neanche tutti si possono permettere. Nonostante tutti i messaggi che cerco di lanciare nel disco, l’impegno più importante era da mettere nel sound, perché i testi gli abbiamo sempre avuti e abbiamo ancora milioni di cose da dire. Non solo per il rap, inteso come musica, ma soprattutto per cercare di fare del bene alla società, valorizzare la cultura e creare delle strutture per i giovani e per chi vuole fare arte. Di conseguenza, quello che io consiglio a tutti quanti è: acculturatevi, datevi un motivo per continuare ciò che state facendo, che non sia il semplice mettersi in mostra e arrivare ai soldi, perché prima o poi anche quelli o stancano o li perdi, specie se non li usi con testa e con uno scopo preciso.
Nei tuoi brani fai numerosi riferimenti a Padova, così come al Veneto in generale ma anche Milano, Lambrate, Porta Venezia e così via… Mi parli di questo tuo legame con il territorio?
Sono molto legato al territorio e amo vivermi i luoghi in cui sto. Ora, infatti, è un peccato che sto a Milano e, per colpa della pandemia, non sono ancora riuscito a godermi la città appieno. Comunque, cerco di fare tesoro di tutto quello che vedo ogni giorno, anche proprio per la musica. Sono una persona che si tiene stretti i propri ricordi, e ogni luogo te ne lascia qualcuno di importante. Altri due posti, veramente importanti per me, sono Bruxelles, dove ho vissuto una volta finito il diploma per fare un piccolo stage di lavoro, e la Sardegna, dove sono stato un paio di volte perché lì vive una persona che ha ispirato tanto i miei testi.
In High in Lambrate dici: “Nell’industria si vede, la coca è la mela dell’Eden/ Quando l’ho provata mi ha fatto cagare, quando l’ho provata mi son fatto cagare”. Vuoi parlarmi un po’ di quest’aspetto?
Questo brano marca il passaggio tra il Veneto e Milano e racconta i momenti in cui stavo cercando casa per trasferirmi. Il brano è stato scritto in uno studio a Lambrate, per questo ha quel titolo. Per quanto riguarda quella barra lì, ho visto tantissime persone, pulitissime, arrivare in questa città e finirci sotto con quella sostanza che personalmente non condanno ma non rispetto. Di conseguenza, era un po’ una maniera per dire a me stesso: “Mi raccomando, quando vai lì non cazzeggiare e non perderti, perché sai da cosa sei partito, sai chi rappresenti e sai ciò che devi fare”. Tutti i testi che sentite, prima che all’ascoltatore, si rivolgono in primis a me stesso, e sono dei memo o comunque degli stimoli a poter essere migliore.
L’album suona come un prodotto completo sotto tutti i punti di vista. La scrittura è ben curata, ma soprattutto non risulta essere piatto: il ritmo cambia di continuo e le produzioni strizzano l’occhio a più vibes differenti. In questo bel miscuglio, hai un brano che preferisci?
Io affronto sempre la musica secondo due vie, che sono poi quelle che si sentono anche nell’album: la via più rap e quella più melodico-sperimentale. Con la prima, oltre a voler dimostrare di essere sempre il migliore, riesco a scrivere più facilmente molti miei messaggi, specialmente quelli più politici. Di conseguenza, dalla parte dei brani rap, preferisco Bravi Ragazzi, anche se Jetski se la combatte. Invece dalla parte delle melodie, dove mi piace sperimentare, migliorare anche la mia voce, direi Millepiedi perché vocalmente, e anche nella scrittura, è stata la mia sfida più grande. Infatti, durante la composizione del brano, mi han detto “metti meno parole possibili”, e per chi mi conosce sa che è una tortura.

Se ti dovessi immaginare da qui a due anni, come ti vedresti? Hai degli obiettivi per il futuro?
Voglio diventare un caposaldo della nostra cultura. Mi spiego: il rap italiano può crescere sia a livello di messaggio che di cultura. Quindi dedicherò, finché potrò, la mia vita e le mie energie per far sì che comunque questa cultura vada avanti il più possibile. Cercherò sicuramente di avviare il mio percorso di autorato, perché è una cosa che mi interessa tantissimo. Mi impegnerò a scovare altri nuovi artisti con cui poter fare nuova musica e cercherò di avere una bella discografia ancora più piena di quello che è già. E con tanti successi.
“Acculturatevi, datevi un motivo per continuare ciò che state facendo, che non sia il semplice mettersi in mostra e arrivare ai soldi, perché prima o poi anche quelli o stancano o li perdi, specie se non li usi con testa e con uno scopo preciso“